In una recente tavola rotonda tenutasi a Milano negli uffici di LinkedIn, intitolata "Il giornalismo nell'era digitale", il presidente dell'Associazione Nazionale Stampa Online (ANSO) ha riferito che la quasi totalità dei giornalisti (94,1%) in fase di preparazione degli articoli utilizza ormai la rete.
La prima fonte online di informazione sono articoli già pubblicati (75,5%), dopo di che i siti web (69%), social media (39%), encliclopedie online (20%).
Collaboro con una testata online e nel mese di aprile 2021 ho scritto un articolo intitolato: "La memoria si salva su carta". Parlava dello studio svolto dall'Università di Tokyo e pubblicato su "Frontiers in Behavioral Neuroscience" (Frontiere delle neuroscienze comportamentali).
Il gruppo di ricercatori giapponesi ha affidato un test a 48 volontari compresi tra i 18 e i 29 anni: si trattava di memorizzare il dialogo tra due tizi che parlavano dei loro progetti futuri e inserivano nella loro conversazione 14 date con annessi appuntamenti e impegni vari. Nel frattempo le 48 cavie divise in 3 gruppi - che lavoravano rispettivamente con penna e quaderno, un'app con calendario digitale e uno smartphone - prendevano appunti.
Al termine del test a Tokyo, dopo un'oretta di intervallo in cui gli studenti sono stati distratti da storielle che parlavano d'altro, è stato chiesto loro di riempire un questionario rispondendo alle domande relative alla prima parte: "Quando avranno questo impegno quei due là?", "Cosa dovranno fare e a che ora, il giorno tale", e via di seguito. Chi aveva usato carta e penna ha concluso in un tempo massimo di 11 minuti, contro i 14 di chi aveva usato il tablet e i 16 di chi aveva utilizzato lo smartphone. Non solo: il primo gruppo, quello del bloc-notes, ha risposto esattamente a un maggior numero di domande.
La spiegazione scientifica di questa strage di memoria: "I 48 volontari erano collegati a un dispositivo a risonanza magnetica che analizzava il flusso del sangue cerebrale e quindi le regioni più attive del cervello durante il test. Chi ha usato carta e penna ha avuto maggiore attività nelle aree cerebrali associate al linguaggio, alla visualizzazione dell'immaginario e nell'ippocampo, l'area che comprende i ricordi e le informazioni spaziali".
Già, perché il docente di neurobiologia Kuniyoshi Sakai ha chiarito che "quando prendiamo appunti su un taccuino, lo facciamo su un oggetto che occupa un posto preciso, permanente nello spazio. Le informazioni sono e restano lì. Con la tecnologia è diverso: quello spazio è più confuso perché facciamo scorrere lo schermo, sfogliamo pagine virtuali, ma quando spegniamo i dispositivi è come se tutto sparisse e rimanesse solo nella memoria artificiale del tablet o dello smartphone".
Prendendo appunti con carta e penna su quei vecchi foglietti che si sgualcisono nel tempo, ma nel caso si possono riscrivere copiandoli, siamo indotti mentalmente a riepilogare le cose, collocandole nel cervello e lasciandole lì per quando serviranno la prossima volta. Il cervello non va in tintoria (anche se a qualcuno servirebbe...), non svolazza (quello di qualcuno sì), non si cancella anche se col tempo (a qualcun altro non ne serve neanche molto) si offusca. Il modo per tenerlo allenato, quell'organo rosa eppure ancora così oscuro e poco conosciuto, è il sistema tradizionale.
Quelle snocciolate alla LinkedIn non sono buone notizie. Lavoravo in cronaca nera e avevo 16 anni: per reperire notizie, dovevamo entrare nelle case di parenti o amici immediatamente dopo un lutto, nei negozi o nelle banche dopo una rapina, andare a parlare nei bar o dal parrucchiere o dal fruttivendolo, interrogandoli.
Telefonavamo dalle cabine o dalla scrivania perché non c'erano i cellulari. E annotavamo tutto sui taccuini, come facevano gli agenti di Polizia e i Carabinieri che sono gli ultimi rimasti a farlo.
Quando ho iniziato il mio percorso professionale c'erano fotolito e rotative, fax, taccuini, cameraman, microfono, cassette beta. Dovevamo essere immediati, diretti, concisi, completi. Sia scrivendo che parlando.
Quello che è cambiato radicalmente in questi 40 anni non sono solo gli strumenti e il metodo, ma il linguaggio e i dati che il nostro cervello è in grado di elaborare. Continuo a pensare che per un giornalista, nel 1700 come nel 2021, il primo esercizio fondamentale sia leggere. Leggere, leggere, leggere tutto: quotidiani, magazine, libri, opuscoli. Persino i bugiardini dei medicinali. Leggere non solo apre la mente, ma arricchisce il cervello e il linguaggio. La memoria. Se non capiamo una parola, c'è sempre Google. Scrivere su un computer, un ipad, un iphone, non è diverso che su un foglio con la macchina per scrivere: è il linguaggio quello che conta.
Ho avuto la fortuna di avere grandi maestri nel mio cammino professionale. Giornalisti fuoriclasse. Nino Nutrizio, Livio Caputo, Maurizio Mosca, Gigi Vesigna, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Aldo Biscardi.
Oggi la mia generazione può raccontare e semmai insegnare solo quello che ha appreso sul campo, non l'uso dei mezzi in cui i giovani sono sicuramente più avanti. E non è come se un fante della Guerra '15-'18 parlasse oggi al generale di una base Nato: le fondamenta della nostra professione sono eterne, vanno curate e rispettate perché senza di esse è la giungla.
Mi dispiace ammettere che il livello della professione del giornalista, drammaticamente passata ai raggi X di quel convegno LinkedIn, è oggi impoverito e quindi più basso. Inziando dal linguaggio per passare all'etica. I giovani hanno la grande, enorme opportunità di studiare e apprendere per risollevare le virtù di questo mestiere, essenziale per la libertà e la democrazia di tutti i Paesi. Cari ragazzi, giovani studenti: non fatevela scappare.
Luca Serafini